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Continuo QUI :
infine la follia dell'occidente, rivisitata e ravvisata come sopra nell'illusorio e velleitario convincimento nell'UNICO vero (e nell'ossessivamente folle sua ricerca dimenticando la presenza storicamente condizionata e condizionante dell'essere UMANO — un essere antropologicamente e culturalmente sempre "obbligato" all'interno del « mondo » del quale ha l'ambizione di fornire la definizione ultima e veritativa), ebbene questa follia dell'occidente fugge dal senso, già ancestralmente vissuto come l'originaria esperienza fenomenologica, dell'impossibilità di una Spiegazione ultima.
Poiche' pero' ho anche avuto occasione di affermare "la follia a reggimento del mondo", bisogna anche determinare che follia e' anche quest'Assenza (l'assenza metafisica) di spiegazione ultimativa del mondo.
Concludo quindi — momentaneamente concludo — dicendo che la follia dell'occidente, consistente nella ricerca del vero unico, — unico, ultimo, ultimativo e definitivo — , e' la fuga dalla Sincera follia dell'impossibilità di quella ricerca, o meglio del ritrovamento del suo fantasmatico oggetto.
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Soltanto a questo punto e' possibile — caro M@ral — affrontare la tua domanda , fornire con una certa consapevolezza critica la propria risposta. Perche' metodologicamente , devo notare, una "comunità filosofica" non e' l'equivalente sul piano della filosofia di quello che e' la comunità scientifica nei confronti delle cosiddette scoperte scientifiche; perche' dalla parte della scienza si parte da certi presupposti condivisi, mentre questo non e' nella filosofia, dove ciascuno costruisce , erige il proprio edifico sulle fondamenta che egli stesso , più o meno consapevolmente, ha già pregiudizialmente scelto.
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Ebbene tirando le somme sulla base delle premesse di cui sopra, direi:
Primo, sarebbe da escludere quanto di "gnoseologico ed ontologico" e' contenuto nella rappresentazione descritta — una specie di « epoche' » fenomenologica, ma più radicalmente e definitivamente eliminativa di quella classicamente husserliana: escludo lo gnoseologico perche' presuppone l'Oggetto vero del conoscere, e l'ontologico a fortiori per definizione. Rimane una fenomenologia, con la soggettività cosciente che vi sarebbe introdotta e che farebbe « parte del gioco ».
Secondo, esattamente quest'ultimo punto sembrerebbe da sviluppare, non e' sufficientemente chiaro dove si puntualizza il "riconoscersi di ogni ente" , quale sia il confine tra cio' che appare e cio' «a cui» appare, e fino a che punto e' lecito parlare di una coscienza o auto—coscienza degli enti che appaiono e «ai quali» appaiono.
(per il resto, non trovo contraddizioni, il tutto si tiene ; sul piano — pero', — esclusivamente fenomenologico—rappresentativo. )
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Si' M@ral : "l' apparire dei fenomeni è il pensare cosciente e il pensare cosciente è l' apparire dei fenomeni " risponde alla domanda, ma suscitandone un'altra — se l'apparire dia luogo a una proliferazione di mondi che appaiono agli infiniti pensieri coscienti ai quali appaiono (l'infinito numero degli "io" empirici che fenomenologicamente appaiono anch'essi); oppure a un apparire trascendentale che appare a un Pensiero trascendentale (il quale rischierebbe di condurre verso una sorta di "oggettivazione" sovraindividuale tipo lo Spirito hegeliano o la Gloria severiniana); ed eventualmente un apparire trascendentale che si puntualizzasse negli infiniti mondi che apparissero agli infiniti pensieri coscienti.
Il che richiederà certi approfondimenti; che si scontreranno, già lo dico, con la mia "impostazione drammatica" del destino individuale (de—stino, anche fenomenologicamente un destino pure quello, a dispetto di ogni destino ontologicamente fondazionale )