2009-04-22 07:49:46 UTC
Noi esistiamo. Sappiamo di esistere. Ne siamo consapevoli . Ma diciamoci la verità : di questo nostro esistere ne sappiamo il perché ? Siamo consci del nostro esser gettati in questo mondo, di questo “pendolo che oscilla incessantemente fra dolore e noia” come definì Schopenhauer ciò di cui ci sono ignoti il senso e la ragione. Essa ci si presenta come un’ immenso ed arido deserto dove tutti gli ideali, i sogni e le utopie si sgretolano come un pugno di sabbia in mano quando cerchiamo invano di realizzarli e dove la felicità altro non è che un’ eterno miraggio. “Tutto è vanità e un inseguire il vento” come è scritto nel libro di Quèlet. Il nostro orizzonte ci appare sempre di più oscuro e avvolto dalle tenebre, senza alcuna luce. Nè’ alcuna categoria di sapienza, ancor di più se moderna è in grado di darci una meta. E qui c’è ancora d’ aiuto l’ Ecclesiaste : “Chi accresce il sapere, aumenta il dolore.” Qual’ è il più inquietante dei quesiti posti fin’ ora, se non quello del senso della storia con il suo bagaglio di secoli e di millenni, del mondo, della civiltà, dell’ umanità, della scienza, del progresso e infine della nostra stessa esistenza. Qual’ è il senso della vita ? Nel solo tentare di riuscire a dare una risposta ci si addentra in quel che rappresenta il sentiero più profondo e tormentato dell’ anima che ci fa sentire quel vuoto e quell’ angoscia che abbiamo dentro di noi diventando tutt’uno con esso conducendoci nei meandri del nulla, alle soglie dell’ oblio. Il quale si rivela anche quando non intravediamo nessun avvenire d’ innanzi a noi o un domani che valga la pena d’ essere vissuto. L’ esser per la morte descritto da Heidegger si pone in questa prospettiva come la più consolatoria fra tutte le fatalità. Una volta che ci si è resi definitivamente conto dell’ esito dissolutorio e nichilistico della filosofia, di quello freddo e disumanizzante della tecnica, di quello distruttivo ed apocalittico della scienza, di quello irrazionale e caotico del progresso e di quello incerto ed angosciante del futuro; possiamo solamente prendere coscienza che esiste un’ unica via di salvezza, l’ unica ancora che può evitare di farci travolgere da questo infinito abisso che ci circonda e di trarci in salvo che è universalmente conosciuta come “speranza”. Ma che cos’ è la speranza ? E’ proprio la certezza che la vita ha un scopo, un senso, una meta. Per questa motivazione è la ninfa vitale del nostro spirito, in quanto lo alimenta e gli da forza nei momenti più bui e foschi. La speranza è la compagna della vita ed e gli è intrinsecamente legata a doppio filo. Quindi è falso affermare che “Finché c’ è vita c’ è speranza” ma al contrario “Finché c’e speranza c’ è vita”. Sperare vuol dire vivere. La totale assenza di speranza provoca la nostra morte interiore che è quella dello spirito, ancor prima di quella fisica che provoca quella del corpo. Si è più vivi da morti che nel vivere da morti. Ma la vera ed autentica speranza non’ è mai un fattore che si lega a qualcosa di contingente e di temporaneo ma bensì di eterno. Altrimenti finisce col ridursi anch’ essa ad una mera illusione ed ad una chimera. Così come tale è quella espressa dai due pensatori marxisti Ernest Bloch e Roger Garaudy, che delineando un’ orizzonte del tutto privo di trascendenza in un mondo ormai secolarizzato e postmoderno, riportano la condizione umana alle condizioni di partenza, ovvero quelle di stanchezza, di noia, di sofferenza e di disperazione. Dimostrando che nel mero immanente non vi è alcuno spazio per una speranza concreta ed effettiva. Decisamente, essa non abita altrove ? Se non in quel che ci fa andare dove il nostro sguardo non può posarsi ? Al di la dell’ apparente ed illusiva dimensione fenomenica della realtà e dalla nostra condizione di enti finiti ? Se non l’ aver fiducia in un destino e nell’ abbandonarsi ad una “fede” ? Solamente la fede è in grado di proiettarci in un’ orizzonte dove la speranza prende vita. Di certo non la fede in un qualcosa di utopico ed astratto come lo sono stati fin’ adesso i tanto enfatizzati “miti moderni” del progresso scientifico e della civiltà tecnologica fatti propri dal positivismo. Ma a qualcosa di cui proprio l’ uomo moderno sente dentro di se anche se con profonda nostalgia. Anche se inconsapevolmente, poiché identifica questo qualcosa nella natura, nel cosmo, nella scienza, nella ragione e, in preda all’ orgoglio in se stesso. Commettendo l’ errore di identificarlo in se e invece non in quel che da cui hanno origine e causa conferendogli così un’ inizio ed una fine che non avrebbero mai potuto avere da se. Dopo la fase della “vis distruens” provocata dalla barbarie nichilistica contemporanea, per fuggire dal suo deserto e risollevarsi così dalle sue macerie, l’ uomo post moderno può attraverso una “vis costruens” ritrovare ciò che ha perduto ritornando sui propri passi ripercorrendo gli antichi sentieri che portano a quell’ immenso mistero che racchiude la